Don Gino: “La cosa più bella dell’essere sacerdote è “stare” con la gente”

Ricercando un luogo dove sostare in preghiera, mi ritrovo nella chiesetta dei Sette Dolori a Vasto, una delle chiese che frequentavo all’inizio di un mio cammino di conversione. Dopo alcuni minuti rivedo, con tanta sorpresa, un volto molto caro alla comunità sansalvese: don Gino Smargiassi. Con i suoi bellissimi quasi 90 anni, con cura e amore stava preparando l’altare per celebrare la Santa Messa. Di seguito l’intervista a un uomo che ha saputo essere un pilastro non solo per le sue comunità parrocchiali ma anche in ambito civile.

Chi è don Gino e come è nata la sua vocazione sacerdotale?

Sono nato il 28 gennaio del 1933. Sono il terzo dei quattro figli di Michelina Santoro e Nicola Smargiassi, entrambi originari di Vasto. Avevo fatto la prima comunione e mi apprestavo a ricevere il sacramento della cresima. Un giorno ci venne a trovare il nostro parroco don Felice Piccirilli. A un certo punto mi chiese: “Gino vuoi farti prete?”. Avevo solo 11 anni ma istintivamente risposi “Sì”. E così di lì a breve, mio padre e don Felice accompagnarono me e altri tre ragazzi al seminario di Chieti. Per me fu molto duro quel periodo per diversi motivi, il primo dei quali, il brusco allontanamento dalla famiglia. Figurati in dodici anni di seminario sono tornato a casa solo una volta ma solo perché probabilmente non avevano da darci da mangiare. Era tutta una regola! Al refettorio non potevamo neanche parlare. E da una parte ci andava anche bene così finivamo subito di mangiare e potevamo andare a giocare in cortile. Mi sono innamorato di Dio leggendo la vita dei Santi e gli scritti di san Paolo. Da queste letture è scaturita di fatto la mia vocazione sacerdotale. Il 29 giugno del 1956 sono stato ordinato sacerdote.

Dove ti hanno inviato all’inizio del tuo sacerdozio?

I primi dodici anni di sacerdozio li ho vissuti come viceparroco di don Felice Piccirilli nella cattedrale di San Giuseppe a Vasto. Don Felice era un santo uomo e un santo sacerdote, mi voleva bene come a un figlio. Mi ha insegnato il senso del dovere e del quando si inizia una cosa bisogna portarla a termine e che Cristo si era fatto crocifiggere per amore mio e non di uno qualsiasi. Alla morte di don Felice sono stato mandato Carunchio. Ero giovane, pieno di entusiasmo e di idee. Feci tante cose ed ero contento io e lo era anche la gente. Sono stati di sicuro gli otto mesi più belli della mia vita sacerdotale. Nel 1973 Monsignor Loris Capovilla mi inviò a San Salvo Marina. Lì non c’era assolutamente niente, e una parrocchia da costruire in tutti i sensi. Quando sono arrivato c’era solo la piccola chiesetta vicino alla vecchia stazione di San Salvo. La marina si era popolata di tante persone che provenivano da luoghi diversi e la Chiesa era vista da tutti come un punto d’appoggio comune. Per ognuno la chiesa era come quando vai in un posto sconosciuto e incontri un tuo paesano che ti faceva sentire quasi a casa. La chiesa e il parroco rappresentavano “il paesano”, l’anello di congiunzione di tutti. Proprio per questo si crearono dei rapporti di comunità incredibilmente belli. In questo contesto ho realizzato la nuova Chiesa di San Salvo Marina pensando che doveva essere non solo un luogo di culto ma soprattutto un luogo di aggregazione. Nel gennaio 2001 sono stato inviato proprio in questa chiesetta della Madonna dei Sette Dolori a Vasto. Anche qui sono stato mandato per costruire una nuova “chiesa” ed è così nata la parrocchia di San Marco Evangelista.

Nella tua vita sacerdotale hai costruito due importanti “Case” del Signore, che cosa significa questo per te?

Assolutamente niente perché basta anche un semplice muratore per costruire una chiesa. E poi i muri, le chiese, le case possono crollare. Basta pensare al recente incendio della chiesa di Notre-Dame. La vera chiesa sono le persone perché ognuno è tempio dello Spirito Santo di Dio.

Qual è la cosa più bella dell’essere sacerdote?

Perdere del tempo con le persone, nel senso di stare con loro.

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