Tutti insieme: ricchezza o confusione
In dialogo con i fratelli e sorelle separati, divorziati, e divorziati risposati
Rubrica a cura di Don Giovanni Boezzi delegato dai sacerdoti della Zona Pastorale di Vasto per la Famiglia
Carissimi, oggi Emanuele si rivolge con coraggio agli operatori di Pastorale familiare dando alcuni spunti di riflessione, gli stessi spunti che sono stati dati da don Eugenio Zanetti nel 22° Convegno Regionale, organizzato dalla Conferenza Episcopale Abruzzo-Molise ad Opi (AQ) dal 23 al 25 agosto 2019. Lo stesso don Eugenio Zanetti nel riportare la propria esperienza ci dice: 1) Cercare di dare attenzione alla persona; 2) considerare la fede personale; 3) l’interpretazione dei sacramenti. In poche parole, continua don Eugenio facendo una domanda a cui seguono i tre punti: quali sono gli atteggiamenti da sviluppare in noi verso le situazioni di fragilità? a) Sguardo; b) Ascolto; c) Condivisione. Nella Relatio Synodi 2014 al n. 24 si legge: «La Chiesa deve accompagnare con attenzione e premura i suoi figli più fragili, segnati dall’amore ferito e smarrito, ridonando fiducia e speranza, come la luce del faro di un porto o di una fiaccola portata in mezzo alla gente per illuminare coloro che hanno smarrito la rotta o si trovano in mezzo alla tempesta».
Emanuele ci dice: si può qui accennare ad una questione che oggi qui ricorre abbastanza spesso nella riflessione pastorale: se sia opportuno realizzare itinerari comuni per separati divorziati risposati o in nuova unione e separati che hanno fatto una scelta di fedeltà, ovvero occorra tenere nettamente divise le iniziative e i percorsi. La critica più comune rispetto ad un percorso indifferenziato è quella che vi intravede un rischio di disorientamento tra i partecipanti circa la dottrina della Chiesa sul matrimonio, o di suscitare tensioni o contrapposizioni tra le diverse sensibilità. Viceversa, secondo altri, la distinzione dei percorsi esporrebbe al rischio che ciò possa apparire come un giudizio soggettivo sulle persone, e, addirittura, una distinzione tra “buoni” e “cattivi”.
Credo sia difficile, oggi, poter dare una risposta definitiva. Nella chiarezza indispensabile dei principi, saranno soprattutto la sapienza pastorale, la sensibilità umana e un’opportuna dose di buon senso a suggerire le vie migliori e concretamente percorribili. Dalla mia esperienza personale, ritengo, tuttavia, che un’iniziativa pastorale di “primo impatto”, almeno nella fase iniziale, dovrebbe soprattutto privilegiare l’aspetto dell’accoglienza incondizionata, senza operare distinzioni tra le varie situazioni. Solo in un secondo momento, si potrà, ed anzi si dovrà suggerire con discrezione la possibilità di un cammino di approfondimento per i separati fedeli con un percorso dedicato. Questo diventa in modo particolare necessario nei momenti di formazione. Va detto, comunque, che la presenza nei gruppi misti di persone che hanno fatto una scelta di fedeltà è sempre significativa per le persone che hanno iniziato una nuova unione, e particolarmente utile per coloro che sono alla ricerca di una scelta di vita. Questo è stato peraltro il percorso storico delle due associazioni in cui opero, Famiglie Separate Cristiane e Separati Fedeli; l’una che accoglie le persone separate qualunque sia la loro situazione dopo la separazione, nata nel 1998, e l’altra, sorta nel 2000, rivolta specificamente ai separati che hanno fatto una scelta di fedeltà.
Nel naufragio della separazione, in un primo momento si è tutti sbalzati fra le onde, e su tutti si abbattono le stesse furie distruttrici. È lì che gruppi, associazioni e movimenti possono essere le scialuppe di salvataggio calate dalle murate della nave e lanciate al largo. Spesso solo loro sono in grado di afferrare il braccio di chi sta per scomparire tra i flutti. Insieme, si salveranno ritornando alla nave della Chiesa. C’è però una fase successiva (che potrebbe anche essere immediatamente successiva ad una prima accoglienza), dove quella stessa carità impone di aiutare a fare discernimento sulla propria situazione, e la necessità di specifici cammini di accompagnamento inevitabilmente si impone.
Vi vorrei far notare che c’è un’opinione diffusa che si potrebbe sintetizzare così: «Oggi il problema sono i divorziati risposati, quelli che non possono fare la comunione… Ma loro, i separati fedeli, che stanno a posto, che non contestano, che problemi hanno? In fondo, cosa cercano, cosa vogliono?». E così che, anche all’interno della stessa comunità ecclesiale, il separato che ha fatto o che è orientato ad una scelta di fedeltà può talora constatare di essere isolato, e cogliere un senso di incredulità e di sfiducia in chi gli sta attorno, e perfino una difficoltà a riconoscere un qualche senso e valore alla sua scelta.
Per me, la risposta sta in un preciso episodio vissuto, quando una signora separata da molti anni, all’inizio della frequentazione di un gruppo, ci disse: «Sono restata sola tutta la vita per i miei figli, perché non mi sentivo di rifarmi una vita. Ma, tornassi indietro…non lo rifarei». Nella rispettosa comprensione del suo intimo sentire, devo dire che trovai quelle sue parole tristissime; mi davano il senso ineluttabile di una scelta subita, anche se sostenuta da nobili ragioni, non maturata e in definitiva non assunta fino in fondo. Ma proprio queste stesse parole mi sono state rivelatrici, e mi hanno confermato definitivamente la necessità di un accompagnamento specifico per me e per tutti quelli che sentono nel cuore di poter fare questa scelta di vita. Perché davvero dia frutto, perché davvero sia una scelta “nuziale”, e non solamente un “restar soli”.
Neppure questa condizione è infatti, di per sé, priva di rischi: il rischio che sia o che diventi solo una condizione umana di ripiego e di chiusura, un espediente di accomodamento, oppure “sterilità affettiva”, rigido formalismo, sterile presunzione, eroismo fine a se stesso, orgoglio spirituale; o ancora, uno stato di mera “sopravvivenza”, di rassegnazione nella solitudine. Credo che tutta la comunità dovrebbe sentire la responsabilità di “custodire” le persone che hanno fatto o sentono di poter fare, con la Grazia di Dio, questa scelta. Non tanto per loro, ma per quello che testimoniano, loro malgrado: un amore più grande, che va oltre la reciprocità, oltre l’unione dei corpi, oltre ogni separazione, tradimento e rifiuto, che può far vivere tale condizione, di per sé umanamente inaccettabile, come una tensione verso quell’unione totale con Dio che è la realtà più profonda e il compimento del sacramento del matrimonio.
- Tu che vivi la stessa situazione di Emanuele, cosa vorresti dire o consigliare agli operatori di pastorale familiare?
- Quali gli spunti?
(fine settima parte)