Sono una mamma non sono una santa: l’aborto spontaneo

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Quando vengo a conoscenza di una donna che si procura l’aborto provo un grande dolore e una grande compassione e mi è spontaneo pregare per lei in questo modo: “Signore perdonala perché non sa quello che fa”. Sono certa che una donna che si procura l’aborto non si rende pienamente conto dell’azione che compie…..Ogni essere che nasce da uomo è un essere umano fin dal primo momento del concepimento..Anche Gesù Cristo nel grembo di Maria è stato un embrione.” (Dal libro inedito “Frammenti di Vita di un’ostetrica” scritto da Armida Nola).

Istintivamente, e non per semplicemente per fede, ho sempre pensato che l’aborto fosse un vero e proprio abominio contro la “Vita”. Il mio più grande sogno da ragazza era quello di realizzarmi come moglie e come mamma e consideravo il fatto di poter generare dei figli la cosa più scontata del mondo. E quando incontravo un’amica che aveva avuto un aborto spontaneo percepivo la sua grande sofferenza ma non la capivo. Pensavo “Ma in fondo aveva solo due settimane, perchè piangere un bambino che non è neanche nato”.

E invece poi tutto ha acquistato una prospettiva completamente diversa. La mia prima gravidanza fu un aborto spontaneo. Non dimenticherò mai quei giorni così bui che mi fecero cambiare completamente prospettiva di vita. Era l’8 aprile 2003: ero stata ricoverata il giorno prima per minaccia d’aborto. Quella sera stessa mio marito andò all’adorazione della parrocchia e una sorella del gruppo (che non sapeva niente che ero ricoverata) a un certo punto gli si avvicinò e gli disse “Non so perchè ma ho la sensazione che questo passo è per te.” Era un passo della bibbia in cui c’era scritto: “Avrai un figlio e lo chiamerai Giovanni”. Gli rimase impresso quel verbo “avrai”. “Perchè avrai già c’è”. La mattina seguente persi il bambino. La mia stanza di ospedale si affacciava sul mare. C’era un panorama incredibile quasi mozzafiato perchè aveva nevicato e da quella finestra si vedeva il contrasto del mare con i tetti imbiancati. Ma quel panorama non riusciva a placare quell’incredibile sensazione di vuoto incolmabile e sensazione d sentirti quasi inutile e che si prova quando si perde un familiare. Invidiavo tutte le altre donne che erano ricoverate e che invece avevano partorito. Io stavo col morale a dir poco sottoterra e gli altri sembravano dirmi “ma cosa vuoi che sia, avrai altre opportunità di diventare mamma”. E più mi dicevano così e più non mi sentivo capita. Io vedevo solo buio. Tra l’altro, in quegli stessi giorni era ricoverata al piano di sotto anche mia suocera che si era rotta il femore per una banale caduta.

I giorni seguenti diventavano sempre più brutti. Era diventata una sofferenza di coppia. Cercavamo dappertutto diecimila risposte che non riuscivamo a trovare. Le mie sensazioni si altalenavano tra il sentirmi in colpa e inadeguata e incapace di essere mamma. A volte dicevo “Signore se non è nei tuoi progetti che io diventi mamma perchè lo desidero così tanto?”.

Ricominciammo a trovare un po’ di pace grazie a un sacerdote, padre Raffaele. A volte quando meno te lo aspetti il Signore ti fa incontrare la persona giusta al momento giusto. Noi non lo conoscevamo, era venuto a fare una catechesi nel nostro gruppo della Madonna delle Grazie. Nel dargli un passaggio, gli raccontammo della nostra sofferenza. Non ricordo tutto ciò che ci disse in quella lunga chiacchierata a tre ma alla fine ci diede una indicazione pratica: “partecipate a una messa, scegliete un nome e nel momento dell’offertorio offrite la vostra intenzione di battezzare questa creatura che non ha visto la luce terrena ma di sicuro quella di Dio sì”.

Passò qualche settimana prima che riuscimmo in questa intenzione ma dopo averlo fatto man mano ricominciammo a riacquistare una serenità di coppia. Andrea è il nome che abbiamo scelto per il nostro piccolo angelo in paradiso. Quel figlio ci ha insegnato che i figli non sono scontati e non abbiamo dei meriti particolari per averli ma sono dei doni di Dio che abbiamo i dovere di custodire. Se c’è un detto che non sopporto è quando definiscono un figlio come il “bastone della vecchiaia”. Dov’è l’amore sconfinato e gratuito in questa orribile definizione?

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