L’amore che cresce nel perdono

«Non si adira» (1Cor 13,5)

Rubrica a cura di Don Giovanni Boezzi delegato dai sacerdoti della Zona Pastorale di Vasto per la Famiglia

Papa Francesco al n. 105 dell’Esortazione Apostolica Amoris laetitia, scrive: «Se permettiamo ad un sentimento cattivo di penetrare nelle nostre viscere, diamo spazio a quel rancore che si annida nel cuore. La frase logizetai to kakon significa “tiene conto del male”, “se lo porta annotato”, vale a dire che è rancoroso. Il contrario è il perdono, un perdono fondato su un atteggiamento positivo, che tenta di comprendere la debolezza altrui e prova a cercare delle scuse per l’altra persona, come Gesù che disse: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Invece la tendenza è spesso quella di cercare sempre più colpe, di immaginare sempre più cattiverie, di supporre ogni tipo di cattive intenzioni, e così il rancore va crescendo e si radica. In tal modo, qualsiasi errore o caduta del coniuge può danneggiare il vincolo d’amore e la stabilità familiare. Il problema è che a volte si attribuisce ad ogni cosa la medesima gravità, con il rischio di diventare crudeli per qualsiasi errore dell’altro. La giusta rivendicazione dei propri diritti si trasforma in una persistente e costante sete di vendetta più che in una sana difesa della propria dignità».

Carissimi, l’amore che non accumula beni per sé, sino a gonfiarsi dei propri possessi al punto di non aver più spazio per la relazione con l’altro, è un amore che, al contrario, mette i suoi beni a disposizione dell’altro. La disponibilità a dare all’altro ciò di cui l’altro necessita è certo un movimento dell’amore, ma sarebbe ingenuo pensare che esso sia sempre spontaneo e immediato. Affinché l’amore sia disponibile a corrispondere al favore richiesto deve sormontare l’onda dell’ira che istintivamente assale l’io quando l’altro giunge nei momenti e nelle situazioni meno opportune.

L’insegnamento racchiuso nelle parabole (cfr. Lc 11,5-8; 18,2-5; 11-11-12), alla fine esaudita nonostante l’incomodo che arreca, evidenzia la forza dell’amore, capace di far breccia anche nei cuori più resistenti. L’amore, se autentico, non ammette disinteresse e spinge chi lo riceve a corrispondere, vincendo anche le giuste ragioni che indurrebbero a non farlo. La risposta può non essere immediata e spontanea, assomigliando a una sorgente che, prima di zampillare, deve farsi strada nello strato di terra che la sormonta. La risposta può persino essere negativa, come quella del secondo dei due figli della parabola del padre che li invia a lavorare (Mt 21,28-31). A differenza del primo pronto a farlo ma disobbediente nei fatti, il secondo dice di non voler andare al lavoro, ma poi, di fatto, lo adempie. Non immediata, dunque, e positiva solo dopo una certa resistenza: eppure la risposta amorevole nei confronti di chi ama è destinata ad averla vinta. Questa segreta convinzione, che ogni cuore di uomo o di donna percepisce in profondità, non a caso ha trovato espressione nei versi tra i più celebri del celeberrimo poeta Dante Alighieri: «Amor ch’a nulla amato amar perdona».

È questa ferita profonda che motiva, probabilmente, l’apparente incoerenza dell’amore, il quale dice una cosa e poi finisce per fare l’opposto. In effetti, sembrerebbe esserci un’incoerenza. Ma lo è se si guardano le cose della prospettiva dell’io, il quale, prima non vuole corrispondere alle richieste dell’amico e poi, invece, lo accontenta. Visto dalla prospettiva della relazione interpersonale l’incoerenza svanisce: ciò che appare è la storia di una relazione amorosa in cui sulle ragioni pur giuste del singolo prevalgono poi le ragioni dell’amore.

La tonalità dell’amore si presenta in questi casi non subito riconoscibile e affascinante: l’altro, più che spontaneamente amato, viene pazientemente sopportato. Ma anche questo è amore, è l’amore che porta l’altro, come una madre porta in braccio un bambino ormai svezzato, pur faticando per il suo peso, la sapiente tradizione cristiana conosce anche questa tonalità dell’amore e ha voluto incastonarla in quell’arcobaleno dell’amore dipinto dalle sette opere di misericordia spirituale: «sopportare pazientemente le persone moleste».

Non si può negare che le richieste dell’altro ci pervengono talvolta come moleste. Ma questo non è necessariamente il sintomo che l’amore se ne è andato. Forse è il segnale che indirizza l’amore più in alto, il gradino che può innalzarlo a un livello maggiore di gratuità. Per superarlo non bastano però la buona volontà e le migliori intenzioni. Il peso dell’altro può sfibrare le energie, così come il peso di un pur adorabile bambino impedisce alla madre di portarlo più a lungo in braccio.

Per sopportare l’altro è necessario avere forza. Non avendola in proprio e non potendo produrla da se stessi, non resta che chiedere, come insegna la stessa parabola dell’amico importuno. Nella misura in cui si chiede con insistenza lo Spirito Santo, ovvero l’amore straordinariamente paziente di Gesù, allora si può corrispondere alle richieste dell’altro, spegnendo l’ira con l’amabilità.

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