Dario, ex operatore di comunità oggi nonno che sa trasmettere il valore della vita
Ognuno di noi incontra sul proprio cammino delle persone che sono chiamate a portare luce dove c’è buio e spesso anche in maniera inconsapevole.
Dario Saraceni è un uomo che vive Vasto che è stato (come racconta lui stesso) le braccia, le gambe e la mente di qualcuno che è al di sopra di tutti. Dario ha accettato di mettersi a servizio dei ragazzi e dei giovani che avevano conosciuto lo spettro della droga, per circa trenta anni, riuscendo ad essere luce dove c’era buio.
Dario era titolare di due pelliccerie, una con sede a Vasto e una a Roma. Nel 1980, senza saperlo, aveva assunto in una di queste sedi, una ragazza con problemi di tossicodipendenza. Di lì a poco, di questo se ne accorge la moglie. La sua reazione, di fronte a una situazione a cui il mondo ci abitua ad avere tanti pregiudizi e allo stesso tempo spaventa, non è stata tra le più rosee.
Così la coppia decide di andare a chiedere un consiglio all’allora direttore delle Salesiani di Vasto Don Mario Tonini che li mise in contatto con un suo confratello, Don Luigi Giovannoni (meglio conosciuto come Don Gigi che oggi fa servizio anche nella cappella dell’ospedale San Pio di Vasto) che aveva da poco aperto una comunità di recupero per tossicodipendenti a Ortona: comunità “Soggiorno Proposta“. Il consiglio di Don Gigi è stato molto netto e chiaro: “O la convinci a entrare in comunità o la licenzi”. Il mattino seguente Dario si fece coraggio e la convocò in ufficio per prospettarle la comunità. Dopo tante insistenze quella ragazza entra in comunità, riesce a lasciare il mondo della droga e a farsi una sua famiglia.
Quel primo contatto con il mondo della droga è stato per Dario come un fiume che parte dalla montagna e poi sfocia nel mare. Don Gigi stava costituendo i C.I.P.A (Centro Informazione Prima Accoglienza), enti di volontariato che avevano il compito di intrattenere colloqui motivazionali per far entrare i tossicodipendenti in comunità e sostegno alle famiglie. Le prime sedi furono aperte a Ortona, Vasto e L’Aquila.
Nella sede di Vasto rimasero coinvolti, insieme ad altri, anche Dario e sua moglie Alba. Dario dal lunedì al venerdì stava a Roma per lavoro, il sabato e la domenica riceveva i ragazzi a cui Alba aveva fissato un appuntamento. Era importantissimo il primo colloquio, bisognava entrare in empatia con quei ragazzi e farli sentire accolti. Bisognava riuscire a tirare quella cordicella dei loro cuori che faceva scattare la voglia di cambiare vita. “Non mi interessa la tua storia da tossico. Come stai? Io non voglio giudicarti né darti consigli ma solo percorrere un tragitto di strada con te”. Nel percorso di recupero erano importantissime le famiglie quando queste c’erano. E quando queste non c’erano o per varie problematiche non erano in grado di dare sostegno, Dario, Alba e le loro due bambine piccole, quasi “incoscientemente” dei rischi cui potevano andare incontro, ospitavano questi ragazzi a casa loro finché non potevano essere trasferiti nella comunità.
Gli operatori del C.I.P.A si occupavano anche di prevenzione nelle scuole medie e nelle superiori. “Era importante entrare in relazione con i ragazzi. Non bisognava spaventarli, né dare direttive. Niente di predefinito”. La prevenzione nelle scuole era anche un modo per agganciare i ragazzi che avevano problemi di tossicodipendenze.
La pellicceria di Roma si trovava vicino all’Università Pontificia Salesiana. Spesso andava alla biblioteca dell’università per procurarsi dei libri che gli potevano essere d’aiuto con il suo lavoro di recupero di tossicodipendenti. Ogni volta che andava lì, senza volerlo si ritrovava nella cappella dell’università, dominata da un maestoso crocifisso di legno. E ogni volta pensava: “Perché sono qui? Che cosa vuoi da me?”. Cominciava a balenargli un chiodo fisso in testa: “I ragazzi per poter entrare in comunità devono essere “puliti” (non devono dipendere da sostanze) ma spesso il Sert stesso è costretto a prescrivere metadone. In questo frangente i ragazzi sono quasi in balia di se stessi. Occorre una struttura residenziale protetta in cui poter abbandonare, gradualmente, ogni forma di dipendenza per poi entrare in comunità. Ma mi ripetevo che non avevo le forze per portare avanti un progetto così grande. Eppure in quel periodo mi sono davvero sentito le braccia e le gambe di qualcun altro. Trovavo tutte le strade aperte per il bene di quei ragazzi.”
Decise di parlarne con Don Gigi che accolse subito la proposta e nel 1993 costituirono la precomunità di Soggiorno Proposta “Il porto”, un braccio di collegamento della comunità di Ortona sul vastese.
Ciò che fino ad allora era solo volontariato divenne un lavoro. E così chiude le due pelliccerie e si comincia a dedicare anima e corpo, 24 su 24 ai ragazzi con problemi di tossicodipendenze. Il primo problema della pre-comunità era la sede in cui poter ospitare questi ragazzi. Dario possedeva, nei pressi dell’Incoronata, un capannone di famiglia e in via provvisoria lo mise a disposizione per avviare la pre-comunità. Non si poteva aspettare, c’erano tanti ragazzi che soffrivano e che avevano bisogno di essere aiutati. All’inizio tre persone si alternavano giorno e notte, compresi i festivi, a dormire e a stare coi ragazzi. Non li si potevano lasciare soli neanche un istante. In pre-comunità dovevano essere presenti sempre almeno due operatori. A prescindere dai turni, quando c’era bisogno si correva.
Anche la famiglia di Dario si ritrovava ad affezionarsi a questi ragazzi e vivere con loro diverse festività e ad essere presente quando c’era bisogno.
Dario cercava una sede più idonea, più accogliente e che consentiva ai ragazzi anche di poter svolgere lavori di artigianato e di coltivare un terreno. Si rivolse all’ente morale Genova Rulli che possedeva vari casolari, talora anche abbandonati. Questi gli diedero in comodato d’uso un casolare abbandonato in contrada Lebba. Ettore Giovannelli curò i lavori di progettazione della struttura in maniera del tutto gratuita rinunciando al compenso di 40 milioni di lire. Nel 1996 fu aperta la sede in contrada Lebba. “L’insegna” della precomunità era un’ancora incisa su una tavola di legno che voleva simboleggiare un ancora di salvezza, l’ultimo anello della catena di sofferenza di questi ragazzi. Tantissimi giovani, non solo di Vasto ma anche di San Salvo e tra cui tantissimi scout, e di tutto il circondario, si recavano in comunità per incontrare questi loro coetanei più sfortunati e donare loro un pò del loro tempo. Ogni domenica un sacerdote andava a celebrare la messa e questa era diversa da ogni altra perché impregnata della sofferenza di questi ragazz: una sofferenza che si poteva quasi toccare con mano nel momento della preghiera dei fedeli.
La Asl in quel periodo pagava gli stipendi agli operatori e provvedeva ad acquistare tutto quanto poteva servire ai ragazzi per uscire dallo spettro della droga, compresi trattori, zappe e quant’altro.
In seguito ai tagli della sanità questa struttura non poteva più esistere e così questa struttura, nel 2008 è stata assorbita dalla comunità principale di Ortona dove Dario ha continuato o prestare il suo servizio fino al 2010 anno in cui è andato in pensione.
Alla domanda qual è il ragazzo che più ti è rimasto nel cuore, ha risposto: “Tutti e quando qualcuno di loro moriva nutrivo e nutro ancora la rabbia di non essere arrivato prima. Oggi questo territorio non ha dei punti di riferimento efficaci per i ragazzi che sono entrati nel mondo della droga. Una società che non si occupa dei suoi giovani e degli anziani non si può definire una società civile. È importantissima la prevenzione che dovrebbe partire già dalle elementari. Prevenzione intesa come accompagnamento, ascolto che viene dal cuore e con gli occhi dell’amore e non con l’orecchio del carabiniere. I ragazzi hanno bisogno di adulti responsabili che sappiano dare il buon esempio più che impartire prediche.”
Oggi Dario Saraceni è un eccezionale nonno quasi a tempo pieno che sa trasmettere ai suoi nipoti, come ha fatto con i suoi ragazzi di comunità e alle sue due figlie, il valore della vita.