Il nostro amore quotidiano, senza vantarsi o gloriarsi

«Non si vanta, non si gonfia» (1Cor 13,4)

Rubrica a cura di Don Giovanni Boezzi delegato dai sacerdoti della Zona Pastorale di Vasto per la Famiglia

Carissimi, papa Francesco ai nn. 97-98 dell’Esortazione Apostolica Amoris laetitia, ci parla di vana gloria. In cosa consistono il vanto e l’orgoglio? Cosa sono il vanto e l’orgoglio e come si differenziano dall’invidia? Nella riflessione precedente abbiamo detto come il brutto della persona invidiosa non stia tanto nel desiderare “santamente” quello che possiede l’altro, ma nel rattristarsi per il fatto che lo possiede. La persona orgogliosa, invece, si schiera decisamente sul fronte opposto; in un certo senso cerca di rendere gli altri invidiosi di quello che egli possiede. Mette volutamente in mostra tutto quello che ha e quello che fa, per potere in qualche modo umiliare l’altro. Se l’invidia tende ad abbassare gli altri; il vanto eleva se stessi, con la conseguenza di poter avere la soddisfazione di abbassare gli altri. Da questo punto di vista sembra proprio che invidia e orgoglio vadano a braccetto, vadano di pari passo. Quando ci si preoccupa troppo della propria immagine, la conseguenza è che ci si dimentica di amare, ed inoltre si rischia facilmente di ferire gli altri. Il vanto si manifesta quando abbiamo un’opinione troppo alta di noi stessi, quando parliamo troppo di noi stessi. Invece, l’amore vero nasconde la propria gloria e sa dar valore a quella del prossimo, ovviamente in modo retto, sano e sincero.

L’espressione che il papa usa al n. 97 «perpeuetai» indica la vanagloria, il bisogno di mostrarsi superiori agli altri, anche con attitudini aggressive. La parola seguente, che troviamo sempre al n. 97, è «physioutai» simile, ma richiama piuttosto un atteggiamento di arroganza. Modi di essere che, in famiglia, creano divisioni e contrapposizioni; il loro contrario è l’umiltà, essenziale per l’amore coniugale/familiare: «Per poter comprendere, scusare e servire gli altri di cuore, è indispensabile guarire l’orgoglio e coltivare l’umiltà» (AL 98).

Per capire tutto ciò, possiamo rifarci alla parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 9-14). In questo dittico abbiamo due modelli di fede e di preghiera. Da una parte il fariseo che prega davanti al proprio io, dall’altra il pubblicano, che, sentendosi lontano da Dio e non potendo confidare in sé, si accusa e invoca perdono. Queste due figure rappresentano rispettivamente l’impossibilità e la possibilità della salvezza. Anzi più esattamente: noi cristiani seri siamo tutti fratelli gemelli del fariseo, il presunto giusto, che Gesù vuol convertire in reo confesso, perché accolga la grazia. In ogni sogno ci sono tre personaggi che contano: io che osservo, un altro che riconosco, e un terzo che non ricordo mai. Questi è proprio il più importante, il medio termine tra me e l’altro. Gesù svela al fariseo questo personaggio ineffabile, mettendogli davanti uno specchio: il pubblicano, nel quale non vuol riconoscersi, è la parte profonda del suo io che non accetta. Il vangelo di Luca incoraggia questo riconoscimento in modo scandaloso, condannando il giusto e giustificando il peccatore.

Il giusto è condannato perché, nello sforzo di osservare le prescrizioni della Legge, trascura il comandamento da cui scaturiscono: l’amore di Dio e del prossimo. Il peccatore invece è giustificato. Questo è il vero scandalo del vangelo, che ci permette di accettare la nostra realtà di peccatori in quella di Dio che ci ama senza condizioni. Questo racconto ci aiuta a discernere sulla nostra preghiera. Questa è vera quando, riconoscendoci nel fariseo, facciamo nostra la preghiera del pubblicano.

Questa parabola è detta per ciascuno di noi, che facilmente, e spesso senza renderci conto, assomigliamo al fariseo. Siamo invitati a riconoscerci pubblicani, e a chiedere con fiducia il perdono di Dio, senza fare confronti con altri.

Concludo con alcune domande che possono aiutare la vostra riflessione personale o di coppia:

  1. Riconosco nella mia vocazione alla vita coniugale la chiamata a testimoniare l’amore che unisce in modo sponsale Cristo e la Chiesa?
  2. Il nostro rapporto matrimoniale è espressione di un amore che ci trascende, o si chiude nell’autosufficienza e nell’orgoglio di una formale osservanza di norme e precetti?
  3. Sono capace di amare gli altri, a partire dal coniuge e dai figli, con tenerezza e disponibilità, o mi sento migliore di loro e in diritto di esasperarli, imponendo su di loro, in nome della fede, carichi troppo pesanti e vuoti di autenticità?

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