La tenerezza come dolcezza e non asprezza

In dialogo con i fratelli e sorelle separati, divorziati, e divorziati risposati

Rubrica a cura di Don Giovanni Boezzi delegato dai sacerdoti della Zona Pastorale di Vasto per la Famiglia

Carissimi, il termine «tenerezza» risveglia in noi l’eco di sensazioni piacevoli, il ricordo di attimi di dolcezza, la risonanza di nostalgie profonde e incancellabili. La tenerezza rimanda a queste esperienze e fa riferimento a un sentimento profondo, inscritto in tutti noi come un germe che attende solo di sbocciare. Siamo esseri di tenerezza fin nelle fibre più profonde del nostro essere. Il motivo è che siamo creati a immagine e somiglianza di Dio-Tenerezza: siamo un suo riflesso storico e un prolungamento umano, per così dire, del suo essere Amore infinito. Come tali, non possiamo vivere ed essere felici che attuando un’esistenza di tenerezza.

Il primo problema che si impone è la distinzione tra «tenerezza» e «tenerume». I dizionari definiscono la tenerezza come un sentimento di «soave commozione», di «attenzione amorevole», di partecipazione sincera al vissuto degli altri; per contro, qualificano il tenerume come un «eccesso di smancerie», «sdolcinatezze di maniera», «falsa tenerezza».

La tenerezza «appartiene alla vocazione nativa e fondamentale della persona umana all’amore e alla comunione» (Familiaris consortio 11), e quindi all’esperienza radicale dell’essere persona come un co-esserci e un pro-esserci; essa si realizza come apertura in una prospettiva di scambio oblativo e di incontro affettivo. Il tenerume, al contrario, dice ripiegamento su di sé, con una ricerca dell’altro più per il tornaconto che per se stesso. La tenerezza si colloca sul piano dell’essere, il tenerume sul piano dell’avere. La modalità esistenziale dell’essere si oppone all’avere, in quanto sgorga dall’esperienza vitale della persona in relazione positiva, libera e liberante, con l’altra. Invece, la modalità esistenziale dell’avere rimanda piuttosto a un rapporto in termini di proprietà e di dominio, al punto che le persone stesse possono diventare oggetto di possesso.

La tenerezza è uno stato dell’anima; il tenerume uno stato d’animo. La prima suppone la responsabilità verso sé e l’altro/a da sé; il secondo è per lo più superficiale, e può divenire perfino irresponsabile. Non c’è bisogno di dire come, in questa sede, si parli di tenerezza, e non di tenerume; tenerezza come sentimento costitutivo della nostra umanità. Ha ragione E. Fromm quando spiega che, tra tutti i sentimenti che l’uomo ha sviluppato lungo la sua storia, non ne esiste uno che superi la tenerezza come qualità tipicamente umana e umanizzante. E, di fatto, una persona non può dirsi pienamente matura se non si sforza di acquisire questo sentimento che la rende «affettuosa», «compartecipe», colma di rispetto e di incanto, capace di relazioni cordiali, di condivisione rispettosa e amabile verso ogni altro da sé.

Il problema che si impone alla nostra attenzione, a questo punto, è di verificare che cosa significhi concretamente scegliere il sentimento della tenerezza come centro della propria vita. Per chi vive una situazione di separazione i sentimenti negativi che diventano dominanti sembrano essere essenzialmente tre:

  1. collera/rabbia: è quello che immediatamente emerge, specie se il separato o la separata è vittima di ingiustizie e prevaricazioni; una collera/rabbia che si connota come rancore, atteggiamento accusatorio e rivincita verso l’altro/a. il coniuge che si separa, soprattutto quanto si sente innocente è particolarmente soggetto a questo tipo di reazione. Colui o colei che si lascia dominare da questo sentimento vive in un’attitudine fortemente rivendicatoria come se navigasse in un mare in tempesta o corresse controvento, senza riuscire a trovare pace, con un risentimento che lo corrode nell’anima e nel corpo, notte e giorno;
  2. paura/ansia: genera la previsione di catastrofi sempre imminenti, con stati di tensione ripetitivi e martellanti. A livello personale, più che l’attenzione al presente, domina l’ansia del futuro;
  3. delusione/tristezza: il terzo sentimento che entra in gioco nella separazione è la delusione, quasi che non esista più alcuna possibilità di gioire; delusione dunque, come tristezza, stato d’animo frustrato, depressione. A livello personale ci si lascia dominare dal senso del fallimento per quanto è successo, se non dalla rassegnazione.

Vorrei concludere lasciandovi alcune domande di riflessione che ci prepareranno anche al prossimo appuntamento, dove affronteremo la tematica della tenerezza come progetto di vita:

  1. Lasciarsi dominare dai primi tre o scegliere il quarto?
  2. Verso quale direzione orientare il senso della propria esistenza?
  3. Come autocomprendersi? Come essere divorati dalla rabbia o dall’ansia o dalla delusione oppure come persone che, nonostante tutto, scelgono la tenerezza e ne fanno l’orizzonte di fondo del proprio vissuto?

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