La lettera del vescovo Santoro

Carissimi fratelli e sorelle, non so come arriverete alla luce della Natività. Soltanto Dio è capace di leggere i nostri passi. Ma mi è caro offrirvi il dialogo che un testimone del nostro tempo ha coltivato a lungo nella sua memoria. È un padre che interroga il suo bambino.

«Perché esiste l’attesa?».
«L’attesa di che cosa?».
Fece una pausa. Riprese con tono più dolce.
«Se mamma non viene, tu l’aspetti?».
«Certo».
«Se manca la luce aspettiamo che torni?».
«Sì, aspettiamo che torni. Papà, se io non voglio stare in attesa e voglio stare senza attesa, posso?».
Allora aprì del tutto la porta e disse solo così: «Se tu sarai capace di stare sempre in attesa, vedrai cose che gli altri non vedono. Quello a cui tieni, quello che ti capiterà, verrà solo dopo un’attesa».

Quel bambino, diventato adulto, commenta: «Molto del destino di ciascuno dipende da una domanda, da una richiesta che un giorno, qualcuno, una persona cara o uno sconosciuto ci rivolge. D’improvviso uno riconosce di aspettare da sempre quella domanda, forse anche banale, ma che in lui risuona come un annuncio e sa che proverà a rispondere ad essa con tutta la vita».

Sulla soglia dell’incanto e della fede, vi chiedo: lo avete atteso il Cristo? Lo avete atteso come i profeti, con lo stesso struggente desiderio dei profeti? Lo avete atteso scorticando le domande dell’anima? Lo avete atteso con la stessa disponibile tenerezza di Maria?
Se lo avete atteso così, vedrete ciò che altri non vedono perché i vostri occhi saranno capaci di penetrare il mistero che accoglie le nostre domande di senso e di infinito. Saranno capaci di sillabare poche straordinarie parole: «Mentre il silenzio fasciava la terra e la notte era a metà del suo corso, tu sei disceso, o Verbo di Dio, in solitudine e più alto silenzio». Saranno capaci di contemplare Dio che pone la sua tenda tra gli uomini per colmare l’incolmabile distanza tra l’uomo e Dio.

E noi non celebreremo per evadere dalla paura, dalla tristezza, dal peso che ritma i nostri giorni, per fare finta che non ci sia, attorno a noi e dentro di noi, il buio e il vuoto, la malattia e la morte. Ma riascolteremo ciò che le sentinelle d’Israele hanno gridato prima di noi, perché ci verrà chiesto di vedere il «Dio per noi, con noi e in noi», al di là di una effimera emozione. Ci verrà chiesto di penetrare Dio che si è coinvolto nella nostra fatica di esistere per ridonare a tutti la speranza che qualcosa può cambiare, anzi che tutto può cambiare, per rioffrirci questa speranza come compagna di viaggio verso una pienezza di vita che non avrà mai fine.
È così inaudito l’annuncio della natività che persino le rovine di Gerusalemme, nel sogno profetico di Isaia, sono invitate a prorompere in un canto di esultanza: «Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme» (Is 52,9). Rovine di ieri, rovine di oggi. Sono le rovine di conflitti a noi lontani e a noi vicini. Sono le rovine della fame e della povertà. Sono le rovine di casa nostra: disoccupazione, precarietà, incapacità a stare insieme. Sono le rovine interiori che fiaccano l’esistenza: solitudini, incomprensioni. Sono tutte le frammentazioni e le lacerazioni del tessuto civile, indici di un malessere comune, di una patologia contagiosa che intacca il corpo di un popolo. E Dio si fa uomo per entrare in questo mondo di rovine e ricostruire l’uomo non con la pasta del peccato, ma con la pasta della sua divinità.
Ecco il mirabile evento del Natale del Signore, prodigio di gioia e di stupore, evento cosmico, rivolto a proporzioni immense, ma insieme evento intimo e personale. Tanto che ognuno può dire: per me, Gesù, sei venuto alla porta della mia vita, hai bussato come un mendicante, non per ricevere, ma per svuotarti di te e condividere sino in fondo la mia sorte, perché condividere è la forma suprema dell’amore. Ecco perché il Natale del Signore non è una carta ingiallita della memoria che ci incombe da rispolverare, ma è Cristo stesso che ci raggiunge, oggi, per riprendersi quella nostra vita che abbiamo buttato lontana da lui, affinché il nostro piccolo cuore di persone stanche e deluse possa ripartire da lui e la nostra piccola storia possa essere legata alla sua storia, dopo avere finalmente compreso che nelle sue mani è riposto il nostro destino. (Vescovo dei Marsi, mons. Pietro Santoro)

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