Gianluca ha contagiato tutti con la sua malattia più grave: l’Amore

(Don Raimondo Artese)

Gianluca Firetti (ragazzo dell’oratorio, colpito da male inguaribile, muore giovane, testimoniando la sua fede)

Gianluca, per gli amici Gian, è nato a Sospiro (CR) l’8/9/1994, secondo figlio di Luciano e Laura, è un figlio, un fratello, un bambino, un ragazzo come tutti gli altri, si impegna a scuola, ama il calcio, tanto da intraprendere la strada del calciatore, una storia normale, niente di che, come tanti, come sempre. Nel Dicembre 2012, durante una partita, la malattia si manifesta con un dolore alle gambe, ma in breve peggiorerà, la diagnosi è infausta, non sono molte le speranze, nonostante gli sforzi dei medici.

In fondo – come ho detto con mio fratello – noi siamo fatti per il Cielo. Per sempre. Per l’eternità”. Con queste parole Gianluca sintetizza l’estrema maturazione che ha vissuto nel corso di due anni di malattia. Durante la malattia, Gian si rivede in Cristo, diventa “l’Alter Christus Patiens” (l’Uomo nuovo sofferente), è la vita che si manifesta nella sua pienezza proprio quando sta per finire. Tramite amici incontra don Marco, con lui parla del Signore, diventa lampada per quel sacerdote da 20 anni. E con don Marco scrive il suo libro, la sua vita in poche pagine, in un alfabeto, è così che Gian si presenta al mondo proprio quando parte per giungere al Cielo.

Il libro “Spaccato in due, l’alfabeto di Gianluca”, nel quale è narrata l’esperienza di malattia e di fede. «La mia storia con Gian è iniziata così. Preoccupato di che cosa dovevo dirgli, di come presentarmi a lui, dopo che aveva chiesto di vedermi, di quanto fermarmi in casa con lui, sono uscito lavato e purificato dalla sua stessa presenza. Da subito, quella sera, con una fetta di torta e tè, soprattutto dalle sue parole e dal suo sguardo profondo, mi sono sentito subito “di casa”. Gian è stato di una semplicità disarmante, pari a quel bambino evangelico, simbolo del Regno, che sa proporsi così com’è, senza schermi o difesa.

E chiedeva a me nient’altro se non di stare, davanti a lui, così come anch’io ero. Da quel deposito, apparentemente sopito, ha saputo spillare il vino buono, per l’ultima parte del suo banchetto nuziale. Gian ha aperto, anzitutto la porta del suo cuore. E da lì, da quell’entrata particolarmente intensa e ricca, ha permesso a Dio, in primo luogo, ma anche a me e a tanti altri di entrare.

Ha consegnato, gradatamente, la chiave del suo cuore, fidandosi ciecamente che, chi gli voleva bene avrebbe saputo aiutarlo, in ogni modo, qualunque cosa fosse capitata. Anche il peggio. Ha deposto la sua vita in mani, cuori, presenze accoglienti. I suoi genitori e suo fratello prima di tutto. Ma anche amici, preti, volontari, medici e infermieri. Ha contagiato tutti quanti con la sua malattia più grave: l’Amore

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