“Dobbiamo separarci…io ho la mia vita”, la testimonianza di un separato
In dialogo con i fratelli e sorelle separati, divorziati, e divorziati risposati
Rubrica a cura di Don Giovanni Boezzi delegato dai sacerdoti della Zona Pastorale di Vasto per la Famiglia
Il maestro amava la gente comune ed era sospettoso di coloro che emergevano per la loro santità. Ad un discepolo che lo consultava sul matrimonio disse: «Assicurati di non sposare una santa». «E perché no!», rispose il discepolo sbalordito: «Perché è il modo più sicuro per fare di te un martire» (tratto da Elogio del litigio di coppia, Carlo Rocchetta, EDB 2019 p.17).
Carissimi dopo undici catechesi è giusto fermarci un istante e ascoltare la testimonianza di Emanuele Scotti, separato non per sua volontà, ma che ha saputo fare un cammino come quello proposto a voi piano piano, senza cadere nell’errore di essere diventato martire. La testimonianza sarà divisa in vari punti, in modo che non ci si stanchi a leggere.
Prima della nostra crisi matrimoniale non erano mancati momenti difficili, anche se abbastanza comuni nelle giovani coppie della mia generazione. Avevamo vissuto periodi di preoccupazioni economiche, ed io poi avevo anche perso il lavoro. Avevamo “tirato la cinghia” per mesi col solo impiego di insegnante precaria di mia moglie. Erano tutti, però, o almeno così mi sembravano, problemi esterni a noi e al nostro legame, che sentivo solido e sicuro, e mai più pensavo potesse essere anche solo sfiorato dagli eventi che, invece, di li a poco ci avrebbero travolto. Di ritorno da un viaggio all’estero, felice per un nuovo incarico lavorativo, vedo mia moglie che mi viene incontro in stazione col nostro bimbo in braccio, che allora aveva due anni, e trovo conferma nei suoi occhi di una strana impressione che avevo avuto in alcune precedenti telefonate. La sento stranamente fredda e distaccata. Quella sera stessa, mi dice: “Dobbiamo separarci”. Resto allibito, sconvolto, mi sembra un incubo, non riesco a crederle. Da quel momento inizieranno giorni, settimane, mesi di discussioni estenuanti, che non avrebbero portato a nulla. Noi die sempre più distanti, incomprensibili e irriconoscibili l’uno all’altro.
La convinco ad incontrare un amico sacerdote a cui avevo esposto la mia situazione, per un estremo tentativo di riconciliazione. Parlano a lungo, per un tempo che mi sembra interminabile. Li vedo poi, come fosse ora, scendere dalle scale, io col cuore pieno di speranza, trattengo il respiro. L’amico prete mi lancia un’occhiata, che lì’ per lì non riesco ad interpretare. Poi, mi prende un po’ in disparte e, a bruciapelo, mi dice: “Guarda, Emanuele, che non c’è più niente da fare: lei ha deciso!”. In tanta sofferenza, in tutto quel dolore, in tutte le reciproche asprezze che seguirono, una delle espressioni che mi fece più male fu quando mia moglie rispose ad una delle mie richieste di spiegazione, via via divenute sempre più pressanti: “Senti, alla fine, io ho la mia vita!…”. A un certo punto mi fu chiaro che non c’era più la “nostra” vita, ma da quel momento in poi ci sarebbe stata di nuovo una “sua” e una “mia” vita. Il mistero grande del matrimonio sembrava divenuto piuttosto un enigma inestricabile di umanità ferite. Ancora oggi, a distanza di altri dieci anni, le cause profonde che hanno portato alla separazione della nostra famiglia mi restano in parte ignote. Mi hanno molto colpito queste parole, di un testo teatrale molto noto, anche se non proprio al grande pubblico, che mi pare centrino il nocciolo del problema: «La gente si lascia trascinare dall’amore come se fosse un assoluto, anche se mancano le misure dell’assoluto. La gente segue la propria illusione, senza cercare di innestare questo amore nell’Amore che ha una tale misura. (…) sono accecati non tanto dalla forza del sentimento quanto dalla mancanza di umiltà. È una mancanza di umiltà verso quello che dovrebbe essere l’amore nella sua essenza. Questo pericolo diminuisce se ne siamo coscienti. In caso contrario il pericolo è incombente; l’amore cede sotto il peso della realtà quotidiana» (La bottega dell’orefice, Karol Wojtyla, 1960).
Dopo alcuni mesi, scoprii che mia moglie aveva un’altra persona. La separazione, ormai inevitabile, avvenne poco dopo. La convivenza di mia moglie col suo compagno ebbe inizio poco tempo dopo la separazione. Era per me un pensiero assillante, che occupava di continuo la mia mente. Soprattutto, l’idea di mio figlio con “l’altro” era un vero tormento. Temevo di perderlo, di essere sostituito come figura paterna. Il solo pensiero che il nostro bambino fosse costretto a vivere questa situazione mi faceva impazzire. Davanti agli occhi della mia mente, scorrevano sempre le stesse immagini, che mi facevano star male, ma che non riuscivo ad allontanare.
(fine prima parte).